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Eva contro Eva


Bè, io amo Gramellini

Eva contro Eva

Ci vorrebbe un Flaubert per rendere giustizia a questo fatterello di cronaca, trasformandolo nel romanzo dei nostri tempi. In un paese alle porte di Monza, Aicurzio, la signora Janet Miranda Gonzales penetra attraverso la porta finestra nell’appartamento dell’amante che l’ha piantata. Il suo scopo è uccidergli la moglie, che ignara di tutto sonnecchia davanti alla tv, infilandole nel petto una siringa da cui sprizza un potentissimo anestetico. La vittima si ridesta appena in tempo per dirottare l’ago sulla medaglietta d’oro che porta al collo. Janet Miranda cerca allora di soffocarla con un cuscino, ma a quel punto si sveglia la figlia dell’aggredita e mette in fuga l’assassina. A tradire quest’ultima è la ciocca di capelli biondi che le spunta dal passamontagna e indirizza i sospetti su una vicina di casa cilena che i carabinieri arrestano nella sua abitazione mentre cerca di fare sparire la siringa.

Le cronache hanno insistito sul travestimento della Gonzales: una calzamaglia nera alla Eva Kant, la compagna di Diabolik. A me incuriosisce di più la sua età, 52 anni. E la sua attività: studentessa di medicina. Se si aggiunge che la moglie assalita ne ha 62 e la figlia convivente 32, ecco come una baruffa di corna diventa l’istantanea di questa società rallentata, dove a trent’anni si abita ancora con la mamma, a cinquanta si va a scuola e ci si fa sconquassare dalle passioni e solo superati i sessanta si diventa così saggi o arresi da appisolarsi davanti alla tv. L’unico che non cambia proprio mai è il maschio copulatore. Assente. Sarà scappato con Diabolik.


L’anziana


Meno cinque gradi.

E’ entrata una signora anziana e mi ha chiesto se poteva sedersi.

Era affannata e aveva bisogno di riposo.

L’ho fatta accomodare e lei mi ha detto che anche se faceva freddo voleva uscire lo stesso per andare a messa, per comprare Intimità e una rivista di enigmistica ché altrimenti si annoiava. Ha inoltre aggiunto di avere ottantasei anni.

Le ho detto in maniera gentile come le fosse venuto in mente di uscire con ‘sto cazzo di freddo. Lei ha detto che pensava di farcela poi mi ha chiesto se poteva stare seduta ancora un po’ in attesa di star meglio.

Dopo pochi istanti è arrivato mio papà che si è imposto di riportare l’anziana signora a casa.

Un po’ mi è dispiaciuto per la signora, credeva di farcela, ci teneva, per lei probabilmente la messa e l’enigmistica sono le cose importanti della vita.

E’ brutto diventare vecchi? E’, cito Pennac con una delle mie frasi preferite, l’unico modo per non morire giovani.

Chissà cosa starà facendo adesso l’anziana signora: di sicuro non le parole crociate in quanto visto il malore non ha comprato nulla, nemmeno Intimità.

Bè, come concludere il post? E’ un po’ che ci penso e non saprei se finire con qualcosa che faccia riflettere o buttarla in caciara.

Chiudo con una citazione sulla vecchiaia che riassume entrambe le cose.

Tutto è relativo. Prendi un ultracentenario che rompe uno specchio: sarà ben lieto di sapere che ha ancora sette anni di disgrazie. 
Albert Einstein


Cecità


Ok, lo ammetto: quando vado in macchina amo ascoltare Radio 24.

Anzi, faccio un passo indietro/parentesi: anni fa ero solito quando tornavo dalla discoteca mettere su Radio Radicale e ascoltarmi per una quarantina di minuti il sermone settimanale di Pannella; non ci ho mai capito nulla ma aveva un qualcosa di rassicurante e arrivavo a casa confuso e felice.

Ora rifacciamo il passo avanti.

Dicevo che Radio 24 è molto piacevole e fa compagnia: spesso i programmi sono interessanti e, ovviamente, non si corre il rischio di imbattersi in canzoni di merda.

Ricordo che una sera ascoltai tutta la storia dell’azienda Procter and Gamble e rimasi affascinato dal modo in cui venne raccontata; ieri più o meno è accaduta la stessa cosa. Non conosco e non so come è strutturato il programma ma a quanto ho intuito in ogni puntata c’è un argomento scelto dagli ascoltatori e viene posto l’accento sulle opinioni degli ascoltatori stessi intervallandole dagli interventi di un radiocronista.

Ieri si parlava di non vedenti e sono rimasto colpito quando il conduttore ha letto un brano di un libro di José Seramago. Il libro in questione si chiama cecità e narra di un paese in cui gli abitanti vengono colpiti dalla cecità, quasi fosse una peste; solo che non vedono nero, ma bianco.

Il brano narra della prima persona cui, improvvisamente, la cosa accade.

Buona lettura.

Il disco giallo si illuminò. Due delle automobili in testa accelerarono prima che apparisse il rosso. Nel segnale pedonale comparve la sagoma dell’omino verde. La gente in attesa cominciò ad attraversare la strada camminando sulle strisce bianche dipinte sul nero dell’asfalto, non c’è niente che assomigli meno a una zebra, eppure le chiamano così. Gli automobilisti, impazienti, con il piede sul pedale della frizione, tenevano le macchine in tensione, avanzando, indietreggiando, come cavalli nervosi che sentissero arrivare nell’aria la frustata. Ormai i pedoni sono passati, ma il segnale di via libera per le macchine tarderà ancora alcuni secondi, c’è chi dice che questo indugio, in apparenza tanto insignificante, se moltiplicato per le migliaia di semafori esistenti nella città e per i successivi cambiamenti dei tre colori di ciascuno, è una delle più significative cause degli ingorghi, o imbottigliamenti, se vogliamo usare il termine corrente, della circolazione automobilistica.
Finalmente si accese il verde, le macchine partirono bruscamente, ma si notò subito che non erano partite tutte quante. La prima della fila di mezzo è ferma, dev’esserci un problema meccanico, l’acceleratore rotto, la leva del cambio che si è bloccata, o un’avaria nell’impianto idraulico, blocco dei freni, interruzione del circuito elettrico, a meno che non le sia semplicemente finita la benzina, non sarebbe la prima volta. Il nuovo raggruppamento di pedoni che si sta formando sui marciapiedi vede il conducente dell’automobile immobilizzata sbracciarsi dietro il parabrezza, mentre le macchine appresso a lui suonano il clacson freneticamente. Alcuni conducenti sono già balzati fuori, disposti a spingere l’automobile in panne fin là dove non blocchi il traffico, picchiano furiosamente sui finestrini chiusi, l’uomo che sta dentro volta la testa verso di loro, da un lato, dall’altro, si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così, come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire uno sportello, Sono cieco.
Non lo si direbbe. Considerati com’è possibile in questo momento, appena di sfuggita, gli occhi dell’uomo sembrano sani, l’iride si presenta nitida, luminosa, la sclera bianca, compatta come porcellana. Ma le palpebre spalancate, la pelle raggrinzita del viso, le sopracciglia improvvisamente ribelli, il tutto, chiunque può verificarlo, è sconvolto dall’angoscia. Da un momento all’altro, quel che era visibile è scomparso dietro i suoi pugni chiusi, come se l’uomo volesse trattenere all’interno del cervello l’ultima immagine colta, una luce rossa, rotonda, a un semaforo. Sono cieco, sono cieco, ripeteva disperato mentre lo aiutavano a uscire dalla macchina, e le lacrime, sgorgando, resero più brillanti quegli occhi che lui diceva morti. Passerà, vedrà che passerà, a volte sono i nervi, disse una donna. Il semaforo aveva già cambiato colore, alcuni passanti curiosi si avvicinavano al gruppo, e i conducenti che, dietro, non sapevano cosa stesse succedendo, protestavano contro quello che ritenevano un normale incidente di traffico, un faro rotto, un parafango ammaccato, niente che giustificasse quella confusione, Chiamate la polizia, gridavano, togliete da lì quel bidone. Il cieco implorava, Per favore, qualcuno mi porti a casa. La donna che aveva parlato di nervi fu dell’opinione che si dovesse chiamare un’ambulanza, trasportare quel poveretto all’ospedale, ma il cieco disse che no, non così tanto, chiedeva solo di essere accompagnato a piedi fino alla porta del palazzo dove abitava, È qui vicino, mi fareste un grande favore. E la macchina, domandò una voce. Un’altra voce rispose, La chiave è inserita, mettiamola sul marciapiede. Non c’è bisogno, intervenne una terza voce, mi occupo io della macchina e accompagno questo signore a casa. Si udirono mormorii di approvazione. Il cieco si sentì prendere per il braccio, Venga, venga con me, gli diceva la stessa voce. Lo aiutarono a sedersi sul sedile accanto al conducente, gli misero la cintura di sicurezza, Non vedo, non vedo, mormorava fra il pianto, Mi dica dove abita, chiese l’altro. Dai finestrini della macchina spiavano facce voraci, avide di novità. Il cieco si portò le mani agli occhi, le agitò, Niente, è come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte, Ma la cecità non è così, disse l’altro, la cecità dicono sia nera, Invece io vedo tutto bianco, Magari aveva ragione quella donna, potrebbero essere i nervi, i nervi sono diabolici, Lo so io che cos’è, è una disgrazia, sì, una disgrazia, Mi dica dove abita, per favore, in quell’istante si sentì l’avviamento del motore. Balbettando, come se la mancanza della vista gli avesse indebolito la memoria, il cieco diede un indirizzo, poi disse, Non so come ringraziarla, e l’altro rispose, Via, non ha importanza, oggi a lei, domani a me, chissà cosa ci aspetta, Ha ragione, chi me l’avrebbe detto, quando sono uscito da casa stamattina, che stava per capitarmi una iattura del genere. Si stupì che fossero ancora fermi, Perché non ci muoviamo, domandò, È rosso, rispose l’altro, Ah, fece il cieco, e ricominciò a piangere. Da quel momento in poi non avrebbe potuto più sapere quando il semaforo era rosso.


Anche oggi, citazione


Tempo fa, complice il fatto che non avevo un Pc in edicola, leggevo di più.

Avevo anche l’abitudine di mettere dei post it sulle pagine dove c’erano parole interessanti e le riportavo il giorno dopo a mo’ di citazione sul Blog (che ai tempi non era ancora il più letto di Chiari).

Ieri sera, a letto mentre Melissa russava leggermente, ero intento a leggere Testa di Cane di Morten Ramsland e ne ho trovata una molto carina (o almeno, molto carina per me). Non avevo a portata di mano alcun post it, quindi per tenere segnata la pagina ho dovuto strappare metà del segnalibro provvisorio ufficiale (che tra l’altro era l’estratto conto della banca).

Adesso mi metto a trascrivere il tutto.

Curare la paura del buio con la luce è un’ottima soluzione. Il chiarore delle lampadine a incandescenza tiene in scacco le ombre e, con il tempo, si può avere la fortuna o di dimenticare a cosa somigliano oppure abituarsi alla luce costante. Io con il tempo mi sono abituato alle lampade sempre accese. Perfino ad Amsterdam a volte avevo la tentazione di lasciarne accesa una per tutta la notte, anche se più che altro per abitudine. Ma all’epoca, quando la paura del buio era più forte, papà ebbe un’altra idea.
“Non lasciarti trapassare dal buio”, mi disse un giorno parafrasando il discorso di suo zio sugli spiriti degli alberi, e aggiunse: “è molto meglio che lo trapassi tu il buio”.
Poi mi prese per mano e insieme andammo nel bosco più vicino. Era una sera d’autunno senza luna, il primo sottile strato di foglie rosse scricchiolava sotto i nostri piedi, e quest’immagine di padre e figlio che camminano nel bosco è ancora oggi capace di farmi traboccare il cuore. Non riuscì a guarirmi dalla paura del buio con un’unica passeggiata nel bosco ma, mentre camminavamo, cominciò a raccontarmi dei suoi vagabondaggi nelle foreste incantante. 
Parlò di una lince illuminata dall’aurora boreale, di un’orchestra di spiriti degli alberi che all’improvviso si materializzò davanti ai miei occhi, e a quelli di due incantevoli fanciulle, che una volta gli erano venute incontro a passi di danza. Una l’aveva incontrata l’anno dopo a Alborg, l’aveva spiata con un telescopio, le aveva fatto la corte con l’aiuto di una bicicletta rubata e ne era stato separato a causa del nuovo lavoro del nonno a Odense, mentre l’altra….
“Chi era?”
E lui rispose: “Tua Madre”.

American Beauty (spoiler)


Mi sono visto American Beauty ieri sera. O meglio, l’ho rivisto per l’ennesima volta.

Il finale è fantastico e ve lo dedico: se non avete intenzione di vedere il film godetevelo, se l’avete già visto apprezzatelo, se non l’avete mai visto chiudete il vostro browser e andate ad affittarlo. Poi mi farete sapere.

Ho sempre saputo che ti passa davanti agli occhi tutta la vita nell’istante prima di morire. Prima di tutto, quell’istante non è affatto un istante: si allunga, per sempre, come un oceano di tempo. Per me, fu… lo starmene sdraiato al campeggio dei boy scout a guardare le stelle cadenti; le foglie gialle, degli aceri che fiancheggiavano la nostra strada; le mani di mia nonna, e come la sua pelle sembrava di carta. E la prima volta che da mio cugino Tony vidi la sua nuovissima Firebird. E Janie, e Janie… e Carolyn. Potrei essere piuttosto incazzato per quello che mi è successo, ma è difficile restare arrabbiati quando c’è tanta bellezza nel mondo. A volte è come se la vedessi tutta insieme, ed è troppa. Il cuore mi si riempie come un palloncino che sta per scoppiare. E poi mi ricordo di rilassarmi, e smetto di cercare di tenermela stretta. E dopo scorre attraverso me come pioggia, e io non posso provare altro che gratitudine, per ogni singolo momento della mia stupida, piccola, vita. Non avete la minima idea di cosa sto parlando, ne sono sicuro, ma non preoccupatevi: un giorno l’avrete.